Qualunque lavoro su di sé, in qualunque disciplina, parte da un presupposto di fondo: la responsabilità della propria esistenza. La responsabilità ci restituisce il nostro potere, eppure tante persone la rifuggono, trasformandosi da padroni in servi. In questo articolo spiego cosa si intende per responsabilità e perché è importante sposare questo concetto se si desidera intraprendere un lavoro di crescita personale.

«Responsabiltà» non è «colpa»!

Noto che in tanti confondono il concetto di responsabilità con il concetto di colpa. È importante chiarire la differenza tra questi due concetti ben distanti fra di loro!

Innanzitutto, definiamo il significato esatto del termine responsabile. Deriva dal latino, più precisamente dal tema respònsus (participio passato di respòndere “rispondere”) con la terminazione -bilem (che accenna alla “facoltà di operare”). Possiamo quindi concludere che è responsabile chiunque abbia la facoltà di rispondere di qualcosa.

Parliamo ora del termine colpa. L’origine più vicina del termine è anche in questo caso latina (da cùlpa). Secondo il dizionario Treccani denota la causa principale, anche se involontaria, di effetti spiacevoli o dannosi.

Una differenza sostanziale balza subito all’occhio: la colpa attiene alla causa di una situazione, mentre la responsabilità riguarda come si reagisce a una situazione. Esistono sicuramente situazioni in cui questi due concetti possono manifestarsi contemporaneamente, per esempio nel caso in cui la nostra condotta crei un danno a qualcuno, situazione in cui quindi possono coesistere il concetto di colpa (laddove è un fatto che la nostra condotta abbia cagionato un danno) e il concetto di responsabilità (quando sta a noi rispondere del nostro danno, per esempio ponendovi rimedio).

Perché nel lavoro su di sé si ragiona in termini di responsabilità e non in termini di colpa? Per comprenderlo è bene introdurre il concetto di giudizio.

Il giudizio

Il giudizio (dal latino iudicium, “giudice”) non si limita a descrivere una realtà, ma va oltre attribuendole un significato, un valore, una qualità. Per esempio, dire che fuori ci sono 30°C è descrivere un fatto senza giudicarlo, mentre dire che fuori fa caldo significa esprimere un giudizio, poiché al fatto oggettivo (ovvero alla temperatura di 30°C) è stato attribuito un significato addizionale (“fa caldo”).

Nel linguaggio comune è facile sentire attribuire la parola giudizio a opinioni tendenzialmente sfavorevoli (mai detto o sentito dire frasi come “Io non giudico nessuno, ma non è il modo di fare…”), ma è una forma di giudizio dire anche “Bravissimo!” al proprio figlio! Bello, brutto, bravo, giusto, sbagliato, caldo, freddo, buono, cattivo… sono tutti giudizi.

Il giudizio andrebbe demonizzato? Assolutamente no, ma è importante sapere quando si sta esprimendo un giudizio e quando no!

La colpa è una forma di giudizio rispetto a un fatto, una persona o una condotta. Dire, per esempio, che è colpa dei nostri genitori se noi oggi siamo quelli che siamo significa esprimere un giudizio nei loro confronti.

Perché attribuire (o attribuirsi) una colpa non è funzionale? La questione è molto semplice: dove c’è una colpa, usualmente troviamo un colpevole (o carnefice) e una vittima. Ogni volta che puntiamo il dito contro qualcuno attribuendogli una colpa rispetto a qualcosa che ci ha fatto, ci stiamo legando energeticamente a lui. Nel giudicare l’altro, giudichiamo noi stessi considerandoci vittime e quindi impossibilitati a risolvere la situazione fino a quando l’altro non farà ammenda. Non solo! Se l’oggetto del nostro giudizio è un nostro genitore (o un qualunque nostro antenato), stiamo anche violando le leggi sistemiche che stabiliscono che chi viene prima di noi è sopra di noi.

Andare oltre

Essere responsabili ci restituisce il nostro potere: ci proietta oltre il giudizio, oltre il concetto di giusto e di sbagliato, liberandoci dalle catene del rapporto vittima-carnefice, consentendoci sempre una scelta.

Papà è stato violento? Mamma correva dietro a ogni uomo più grande di lei che trovava? Il capo ufficio privilegia il nostro collega? Nostro marito fa gli occhi dolci a ogni ventenne che incrocia? Nostra moglie ci tradisce? La domanda che dobbiamo porci per cominciare ad essere responsabili è: e quindi? Papà, mamma, marito, moglie, capo ufficio, vicino di casa, governo, Dio, l’Universo, la Luce sono ciò che sono e fanno ciò che sono. La questione è: come intendo reagire io? Intendo incrociare le braccia, sbuffare e tirare calci a terra, come i bambini, finché non mi sarà data ragione, o preferisco assumermi le mie responsabilità accettando lo stato di fatto di cose e scegliendo la risposta più armonica e costruttiva possibile? Preferisco impuntarmi finché non mi viene riconosciuta la ragione o preferisco essere felice?

Le Costellazioni Familiari & Sistemiche insegnano chiaramente che accettando la realtà di fatto per quella che è e assumendosi le proprie responsabilità è possibile ottenere risultati sorprendenti, a patto di voler rinunciare a cambiare l’altro o ad aspettare che l’altro cambi.

Pensa a una situazione di difficoltà in cui ti trovi e, invece di cercare un colpevole, prova a domandarti: «E quindi? Cosa posso fare io?».